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Teodòsio I Flàvio.

(detto il Grande). Imperatore romano. Figlio di un generale al servizio dell'augusto di Occidente Valentiniano I (V.), iniziò la sua carriera militare al seguito del padre in Britannia e presto fu nominato dux della Mesia inferiore. Quando nel 375 suo padre venne giustiziato, perché coinvolto in una congiura di palazzo, T. si ritirò a vita privata in Spagna. In seguito alla sconfitta inflitta dai Goti ai Romani ad Adrianopoli nel 378, T. venne richiamato dal nuovo imperatore Graziano e, in virtù delle sue capacità militari, inviato a combattere i barbari in Illiria come magister militum. Nello stesso anno sconfisse in battaglia campale i Sarmati e Graziano lo associò all'Impero alla guida dell'Oriente: l'azione di governo di T. ebbe una profonda influenza nell'evoluzione dell'Impero, per quanto riguardò sia i rapporti con i popoli barbari, sia le questioni religiose (rapporti tra Stato e Chiesa, definizione e imposizione dell'ortodossia, ostracismo dei culti pagani), sia il futuro assetto territoriale. Al termine di una dura campagna contro i Goti, iniziata nel 380, T. stipulò un trattato di pace innovativo (382), mediante il quale a questa popolazione si concesse l'insediamento nei Balcani, entro i confini dell'Impero: essi avevano il diritto di mantenere la propria coesione politica e militare, erano esenti da tasse, ma in cambio si impegnavano a garantire la difesa di quei confini secondo lo status di foederati. Il progressivo spopolamento e le crescenti difficoltà nel reclutamento di uomini, infatti, consigliavano una politica di assorbimento e di integrazione dell'elemento barbarico, che presto venne ammesso anche nell'esercito regolare. Parimenti lungimirante fu la decisione di T. di assicurarsi la pace con la Persia cedendo ad essa parte dell'Armenia. Pacificati i confini orientali e ristabilita disciplina ed efficienza nell'esercito, l'imperatore era in grado di intervenire anche nel settore occidentale dell'Impero, devastato dalla guerra civile, dopo che nel 383 Graziano era stato assassinato e le truppe di Britannia e Gallia avevano proclamato augusto l'usurpatore Magno Massimo. T., da parte sua, tentò una mediazione: confermò Valentiniano II, già associato al potere da Graziano nel 375, come nuovo augusto d'Occidente sotto la tutela della madre Giustina, ma riconobbe autorità anche a Massimo, sulla prefettura di Gallia. Ciò nonostante l'usurpatore invase l'Italia nel 388 sfidando T. che lo sconfisse e lo giustiziò quello stesso anno ad Aquileia. L'imperatore rimase in Italia per tre anni, durante i quali il potere imperiale, in ultima analisi accentrato nella persona di T., era tuttavia cogestito per l'Oriente con il figlio Arcadio, che egli si era associato fin dal 383, e per l'Occidente con Valentiniano II, sotto tutela del generale Arbogaste. Rientrato T. a Costantinopoli nel 391, la situazione in Italia non tardò a deteriorarsi: la rivolta fu catalizzata dall'insofferenza dell'aristocrazia senatoria per le leggi emesse in quegli anni dall'imperatore contro i culti pagani, sia pubblici sia privati. Arbogaste portò alle estreme conseguenze il malcontento dei senatori, uccise Valentiniano II e ne indicò il successore in Flavio Eugenio (393). T., naturalmente, lo considerò un usurpatore: nominò subito il suo secondogenito Onorio augusto d'Occidente e mosse verso l'Italia (394), mentre la guerra civile assumeva connotati religiosi, fronteggiandosi gli ultimi seguaci degli antichi culti romani e pagani e il paladino della nuova religione di Stato. Lo scontro, sia armato sia confessionale, si concluse con la vittoria di T. che, tuttavia, non ne godé a lungo, perché morì pochi mesi dopo aver ricostituito l'unità dell'Impero (395). T., infatti, non aveva mai rinnegato una concezione unitaria dello Stato: la creazione di due distinti augusti per Oriente e Occidente vantava ormai solidi precedenti ed era stata introiettata come necessaria per una buona amministrazione e un'efficace tutela dei confini. A questo scopo T. aveva associato i suoi figli all'imperium, senza prevedere che la divisione si sarebbe trasformata da amministrativa a politica e statale. Le sorti dei due settori dell'Impero, infatti, dopo la morte di T. si divaricarono: quello occidentale si avviò alla decadenza, resistendo nominalmente per meno di un secolo, ma soggiacendo di fatto assai prima alle occupazioni dei suoi territori da parte dei popoli barbari (V. ROMA); quello orientale, che si evolse nelle forme dell'Impero bizantino, sopravvisse invece fino alla conquista di Costantinopoli da parte dei Turchi nel 1453 (V. BIZANTINO). ║ Consapevole delle forze disgregatrici attive all'interno dell'Impero e in grado non solo di minarne l'unità territoriale ma anche di disperdere qualsiasi comune denominatore culturale tra popolazioni tanto lontane, T. cercò di assicurare l'unità statale da un lato proponendosi come imperatore unico (e dopo le associazioni all'imperium come figura ultima nell'esercizio del potere), dall'altro imponendo il Cristianesimo come nuovo e centrale elemento di coesione nell'Impero. La nuova religione doveva non solo soppiantare le sopravvivenze dei culti pagani ma anche proporre un'unica e sola versione di sé, evitando cioè l'insorgere di eterodossie che potessero dividere in più confessioni il popolo dei fedeli, prestandosi per ciò stesso anche a fomentare divisioni politiche. Fin dai primi anni del suo regno T. si dedicò a realizzare questo programma, squisitamente politico ancorché inerente a questioni di fede: sostenendo con forza i principi stabiliti dal Concilio di Nicea del 325 (V. NICEA e SIMBOLO DI FEDE), mirò a ricostituire l'unità confessionale tra vescovi e si adoperò contro l'eresia ariana emanando prima l'Editto di Tessalonica (380) - che stabiliva essere fede ortodossa quella predicata dai vescovi Damaso di Roma e Pietro di Costantinopoli - e poi convocando e presiedendo un concilio ecumenico a Costantinopoli (381). Con esso vennero confermati gli articoli del simbolo niceno e condannato definitivamente l'Arianesimo; inoltre, l'imperatore, già garante dell'unità politica e territoriale dello Stato, si assumeva anche il ruolo di difensore dell'unità del popolo dei fedeli e di ultimo giudice dell'ortodossia dei vescovi. A completamento di tale (forzosa?) concordia confessionale, T. si impegnò nella lotta contro gli ultimi pagani, che avevano i loro principali rappresentanti nell'aristocrazia senatoria occidentale: con l'Editto di Tessalonica T. aveva già reso obbligatorio il culto cristiano per tutti i sudditi dell'Impero, ma con quello di Costantinopoli del 392 dichiarò illecite non solo le cerimonie pagane pubbliche (sacrifici, pratiche divinatorie, ecc.) ma anche gli atti di culto privati. Si costituiva così una vera e propria Chiesa di Stato che l'imperatore si proponeva di poter dirigere o almeno influenzare direttamente. A dispetto dei suoi progetti, però, T. si accorse che non era affatto scontata la riduzione della gerarchia ecclesiastica a strumento della ragion di Stato: i burrascosi rapporti che intercorsero tra l'imperatore e il vescovo di Milano Ambrogio ne sono un esempio significativo. Quest'ultimo, che già aveva rivendicato l'autonomia dei vescovi rispetto all'imperatore in materia spirituale, stabilì un precedente riguardo la giurisdizione della Chiesa su tutti i cristiani, imperatore compreso. Quando T., per punire la città di Tessalonica per una ribellione, ordinò il massacro di 7.000 cittadini, Ambrogio non lo ammise all'Eucarestia e gli impose una pubblica penitenza. Al regno di T. dunque, che da un lato contribuì all'affermazione del Cristianesimo ortodosso in tutto l'Impero e dall'altro cercò di ridurre anche la Chiesa alle superiori ragioni dello Stato, risalgono i prodromi del successivo e secolare conflitto tra potere secolare ed ecclesiale (Cauca, Spagna 347 circa - Milano 395).